Un’immigrata dalla pelle scura si trova ai piedi di un totem cilindrico, membro di un’assemblea di esseri scultorei. Una sensazione di stupore si insinua in lei, penetrandole nei pori, suscitando nel sangue una vampata che ben conosce, di solito evocata da ciò che è silenziosamente colossale: le tracce di nettare su una foglia che si schiude; l’impetuosa solitudine delle cime alpine innevate; un gruppo di magnolie in una fase di fioritura estatica, quella visione che una volta all’anno chiede una sospensione dell’incredulità; i boschi di castagni in primavera, che sprizzano fresca clorofilla; i tronchi delle querce che cercano di smorzare la loro maestosità; la resilienza terrosa delle rocce coperte di muschio. Esempi di miracoloso ordinario-quotidiano.
Qualche minuto prima stava chiacchierando con un’amica curatrice nella vicina caffetteria. Si erano scambiate racconti sulle loro ricerche personali e sulle ordinarie questioni materne su cui si fondano le loro vite. Dopo aver saldato il conto al bar, si sono dirette verso Museion Passage. Sperava di “imbattersi” nelle sculture di Vallazza o di “visitarle” attivamente, di aggirarle di proposito, agendo così su opere che fino a quel momento le erano sconosciute. Questa è sempre stata la sua strategia infallibile per lottare contro l’ignoto: aggirarsi con cautela, lasciando che le impressioni maturino. Ma era impossibile evitare i totem, i menhir e le forme simili a uccelli di Vallazza, che torreggiavano sullo spazio d’ingresso di Museion Passage. Da un lato la facevano apparire minuscola, dall’altro, sembravano venirle incontro all’altezza dei suoi occhi, come se si levassero per incontrare il suo sguardo.
Adolf Vallazza 100, exhibition view, Museion, 2024.
Photo: Daniele Fiorentino
Più tardi, quando ha cercato di dare un senso a quella sensazione persistente imparando di più sulla pratica di Vallazza, nonostante la sua crescente capacità di destreggiarsi tra le due lingue – che fino al suo arrivo qui quattro anni fa le erano ugualmente estranee – ha involontariamente prodotto un errore di tipo dislessico. Ha letto scultura come se fosse scrittura. “Può la scultura essere scritturale?” si è chiesta. Potrebbe essere questo il motivo di quello stupore inatteso?
Nel corso della sua vita itinerante, si era imbattuta in numerose opere d’arte che richiedevano una certa attenzione da parte degli spettatori perché il loro significato potesse liberarsi; un atto di persistenza dello sguardo in grado di estrarre un senso. Le sculture di Vallazza non sembravano appartenere a questa categoria. Sembravano sorprendentemente immediate, come se la natura dell’intervento artistico avesse trasformato la materia prima, pur conservandone l’essenza. No, trasformato non era la parola giusta. Sembravano sorprendentemente immediate, come se Vallazza avesse estratto qualcosa di cruciale e molecolare che giaceva dormiente all’interno del legno di recupero, che è il loro ingrediente di base. La sua tecnica sembra comportare un lavoro sia per assecondare che per contrastare la grana del legno. Le opere non sembrano “lucidate” o “levigate”. In un documentario sulla sua pratica, lo ha visto accarezzare le assi appoggiate in verticale in un angolo del suo studio. Le sue dita sfiorano le venature, come se divinassero i segreti delle loro vite future e passate.
Adolf Vallazza 100, exhibition view, Museion, 2024.
Photo: Daniele Fiorentino
Alla sua terza visita, si è sentita attratta, nell’area immediatamente adiacente alle sculture, dal suo disegno Totem del 1987. Le energiche pennellate bianche che circondano l’opera fanno pulsare i margini, mentre le pennellate rosse a contrasto sul pavimento su cui poggia la base della scultura aumentano l’illuminazione. Durante questo momento di contatto e di connessione ha iniziato a considerare le connotazioni semantiche della parola “grana” e la pluralità delle sue implicazioni e applicazioni in diversi mezzi artistici. La granulosità della carta che ostacolava o favoriva il flusso della sua penna a inchiostro e la conseguente cadenza della sua scrittura; la qualità granulosa della sabbia e la sua capacità di irritare il corpo ospite di un’ostrica per produrre una perla; la salinità codificata in un granello di sale marino, che si forma quando l’acqua salata evapora; i granelli di senape, di grano o di riso che suggeriscono la fecondità; la granulosità di una stampa fotografica in base alla saturazione della luce… La grana come aspetto della superficie. Grana come caratteristica della trama. Grana come componente dell’illuminazione. Grana come fattore di un vuoto d’ombra. Grana come macchiolina. Grana come densità. Grana come singolare solo in relazione a un insieme. Grana come unità di base del suo stupore.
Adolf Vallazza 100, exhibition view detail, Museion, 2024.
Photo: Daniele Fiorentino
Si è chiesta se Vallazza abbia intenzionalmente messo in rilievo le venature del legno di recupero che forma le sue sculture. In qualche modo, rende manifesta la loro superficie come deposito dell’esperienza vissuta dal legno; un archivio della sua esistenza come oggetto funzionale, che nel passato ha avuto contatti con numerosi agenti prima di diventare la sua materia prima. Vallazza sembra aver lavorato con ogni pezzo in modo intuitivo, lasciando che la sua forma unica dettasse ciò che poteva racchiudere, intagliando di conseguenza motivi o disponendo elementi decorativi per creare esseri antropomorfi che sembrano sul punto di muoversi, nonostante il loro stato di stasi.
Posizionati lungo Museion Passage, questi totem, menhir e forme simili a uccelli affermano la loro presenza nella vita quotidiana del museo, rifiutandosi di “stabilirsi” sullo sfondo. Queste sculture scritturali rifiutano o sfidano le categorizzazioni, si collocano a cavallo tra i parametri di più generi, essendo allo stesso tempo paesaggio, disegno figurativo, astrazione e arte concettuale e posizionandosi all’intersezione tra l’epico, il folcloristico e il quotidiano. L’atto e l’arte di un ascolto profondo e galattico, che ha chiaramente guidato tutti gli aspetti processuali della loro creazione, continuano a rafforzare la loro porosità collettiva. La loro granulosità sembra epidermica, senziente, come i pori della sua pelle scura di immigrata.
Adolf Vallazza 100, exhibition view, Museion, 2024.
Photo: Daniele Fiorentino
Rosalyn D’Mello (lei/loro) è una scrittrice femminista intersezionale, critica d’arte, editorialista, saggista, redattrice, educatrice e ricercatrice. È autrice di A Handbook for My Lover (HarperCollins India 2015 / Hardie Grant Australia 2016), provocatorio libro di memorie erotiche. Collabora con importanti riviste internazionali d’arte, tra cui STIR, oltre a curare una rubrica settimanale di femminismo per il quotidiano indiano mid-day. Cresciuta a Mumbai, D’Mello vive attualmente in Alto Adige, dove “affronta i rigidi inverni alpini facendo leva sui suoi ricordi sensuali del sole di Goan”.