Bulletin 2024.8

Alza gli occhi e guarda

Alberto Garutti e il dialogo con gli spettatori

Alberto Garutti
Cover monografia “Alberto Garutti” di Studio Celant, ed. a+mbookstore, 2024.

Una lunga, infinita forma di dialogo con le persone: così l’artista Alberto Garutti (1948-2023) concepiva le sue opere. La sua posizione critica, etica e poetica verso le cose e il mondo risuona nei suoi scritti, raccolte di pensieri e brevi note. In questo numero del Bulletin ve ne proponiamo un frammento, come estratto in anteprima esclusiva dal volume “Alberto Garutti” a cura di Studio Celant, la più completa panoramica dell’attività di Garutti e la sua pratica, che verrà presentato a Museion il 29 agosto prossimo.

SPETTATORE

ALBERTO GARUTTI AGOSTO 2022

A volte penso a tutto il corpo dei miei lavori come a una lunga, infinita forma di dialogo con gli spettatori. Come se tutte le opere componessero una declinazione di molteplici forme di incontro. Dai primissimi lavori pensati e immaginati nel mio studio ai progetti estesi nel paesaggio. Incontri con i cittadini in occasione dei lavori pubblici, con le istituzioni, la politica, i passanti, gli animali, gli insetti, le piante, i vicini di casa, i cieli, le stanze, le città; e poi incontri tra le pieghe del sistema dell’arte con i collezionisti, con l’orizzonte delle loro vite, con le istituzioni museali, con il pubblico delle mostre, delle fiere, delle biennali. L’etimo di “spettatore” – spectare – implica la nozione di sguardo, ma anche di cura, attesa, attenzione e movimento semplice verso una direzione. “Guardare, essere rivolto a, andare verso”. Credo che l’opera esista solo nello sguardo – critico, etico e amoroso – di chi la osserva, nell’incontro unico e speciale con il suo destinatario. L’opera non è mai completa, non si racconta mai nella sua interezza, ed è ambigua per definizione. Le grandi opere, portatrici di senso complesso, contenitori di futuro, ci sfuggono. Addirittura, possono mentire. Dove possiamo immaginare di trovare la verità dell’opera? Proprio nell’andare verso di essa, nella ricerca continua che lo spettatore – e l’artista è sempre il primo spettatore – è necessariamente invitato a fare. In questo senso alcuni lavori sono stati tasselli chiave per me, frammenti rivelatori nella costruzione del mio pensiero teso a esplorare, provare a toccare, proprio lo spazio tra opera e spettatore.

Senza titolo (Opera per camera da letto), 1995. Camera 402, Palace Hotel, Bologna   Courtesy Studio Alberto Garutti
Senza titolo (Opera per camera da letto), 1995. Camera 402, Palace Hotel, Bologna Courtesy Studio Alberto Garutti

Il cristallo fosforescente del Palace Hotel a Bologna per “Territorio Italiano” (1995) a cura di Giacinto Di Pietrantonio, per esempio, è uno di questi, ed è la metafora fisica di un incontro. Il primo lavoro che inizia a tematizzare appieno questo tema. Intimo e clandestino, l’incontro tra opera e spettatore in quel caso accade di notte. L’opera è ambigua e inafferrabile. Si accende in un bagliore algido sul limitare tra sonno e veglia. È visibile solo a chi dormirà in quel luogo. Nella stanza – luogo pubblico e dome- stico insieme – l’opera diviene una metafora dell’arte stessa. Questo lavoro, che genererà poi la serie dei semi-invisibili mobili fosforescenti di Che cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno?, è per me un manifesto d’intenti. All’interno dello spazio specializzato dell’arte – tra le stanze delle gallerie, dei musei e delle Biennali – invito infatti l’osservatore a cercare l’opera, a caricarsi della responsabilità del proprio sguardo. A cercare l’opera stessa. In questo senso i mobili di sala del museo per “Spazi atti / Fitting Spaces” nel 2004, oppure recentemente le decine e decine di arredi di una fiera, si trasformano attraverso l’uso di un sottile velo di pittura fosforescente, apparendo solo la notte quando lo spazio dell’istituzione è chiuso. Suggerisco allo spettatore da un lato di immaginare poeticamente ciò che non è visibile, dall’altro lato di riflettere sul problema dell’artisticità, sulla natura sfuggente dell’opera d’arte.

Che cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno?, 2004. Veduta della mostra “Spazi atti / Fitting spaces”, PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 2004 Foto di Mario Tedeschi
Che cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno?, 2004. Veduta della mostra “Spazi atti / Fitting spaces”, PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 2004 Foto di Mario Tedeschi

Quando Christina Vegh mi commissionò un’opera per il Gesellschaft di Hannover (2016) decisi di lavorare a un pezzo-manifesto sul problema della responsabilità critica dello sguardo dello spettatore al di fuori del museo. Comprammo una pagina del più diffuso quotidiano cittadino e proposi un’opera didascalia. Opera dedicata a chi ora alza gli occhi e guarda. Invitavo i cittadini lettori a sollevare i propri occhi dalla lettura delle notizie del giornale e guardare la realtà; a rendere critico il proprio modo di guardare le cose. Quello che Maurice Blanchot definiva “dono”: essere consapevoli della propria esistenza.

Opera dedicata a chi ora alza gli occhi e guarda, all’interno di Hannoversche Allgemeine, 3-4 settembre, 2016   Courtesy Hannoversche Allgemeine

Nei processi di costruzione dei progetti pubblici teorizzo invece un moto inverso, in cui l’opera deve necessariamente andare direttamente “verso il pubblico”. Ed è proprio in questo senso che sottolineo il ruolo chiave della “discesa dal piedistallo dell’autore” per costruire una relazione di incontro con le persone priva di ogni retorica o arroganza autoriale. Nello spazio della città immagino di mettermi “al servizio” dello spettatore, penso a esso letteralmente come al mio committente. Come chi conduce ricerche di marketing analizza e studia l’evoluzione del gusto della gente per poter mettere sul mercato un prodotto in grado di anticipare le tendenze e le produzioni del futuro, allo stesso modo posso dire che tutti gli incontri con i cittadini-spettatori che precedono la realizzazione concreta di una mia opera pubblica sono uno strumento, un mezzo necessario per attivare il processo, e produrre le condizioni necessarie per la costruzione e propagazione del lavoro. Opero machiavellicamente utilizzando l’incontro con le persone come strumento per provare ad assorbire un frammento di città attraverso i loro racconti, per poi – proprio a loro – restituirne e dedicarne un altro traslato, modificato, trasposto, attraverso il mio lavoro. È per questo motivo che mi interessa moltissimo che i destinatari dell’opera, cioè proprio gli spettatori-passanti della città, capiscano a pieno il senso dell’operazione, al di là del fatto che possano considerare la trasformazione del sistema di illuminazione di una piazza, delle nuove panchine nel paesaggio o un tetto d’oro per un’antica architettura rurale un’opera d’arte oppure no.

Il cane qui ritratto appartiene a una delle famiglie di Trivero. Quest’opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno, 2009, Trivero Foto di Demian Dupuis. Courtesy Fondazione Zegna
Il grande tetto dorato rende prezioso questo antico casale. L’opera è dedicata alla sua storia e a coloro che passando di qui immagineranno le sue stanze vuote riempirsi nuovamente di vita, 2017-19, Ca’ Corniani, Caorle Foto di Agostino Osio. Courtesy Genagricola, Generali Italia

L’opera si muove circolarmente, si genera attraverso l’incontro con lo spettatore e ritorna allo spettatore senza mediazioni né sistemi specifici di riferimento, fino a sciogliersi e confondersi con il luogo, le cose e le persone. Quando ho deciso di trasformare e radicalizzare la mia antologica al PAC nel 2012 in una performance di quattro mesi sul rapporto pubblico-museo, ho registrato le voci, i commenti, i suoni, le conversazioni, i pettegolezzi pronunciati da tutti i visitatori della mia mostra, tramutando lo spettatore in un soggetto-oggetto. Ho immaginato una sceneggiatura-autogenerata e fuori dal mio controllo, la cui protagonista era la voce del pubblico. Quasi per naturale e inattesa evoluzione dei miei primi lavori negli anni Settanta sulla coscienza critica dell’individuo, sul soggetto che riflette su se stesso, l’opera perde nel museo la sua forma e muta in un’infinita conversazione aperta tra le decine di lavori in mostra, lo spazio delle sale e la moltitudine dei suoi visitatori.

In queste sale 28 microfoni registrano tutte le parole che gli spettatori pronunceranno. Un libro a loro dedicato le raccoglierà. Veduta della mostra PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 2012 Foto Delfino Sisto Legnani

La presentazione del volume “Alberto Garutti” si tiene in occasione del progetto espositivo “Piccolo Museion - Cubo Garutti. Un racconto”. La mostra si svolge a vent’anni dall’inaugurazione del Piccolo Museion, che venne realizzato nel 2003 da Alberto Garutti nel quartiere Don Bosco di Bolzano e commissionato dalla Ripartizione Cultura Italiana della Provincia Autonoma di Bolzano.

Nel corso degli anni, il Piccolo Museion - Cubo Garutti ha accolto e attivato numerosi progetti e interventi artistici nello spazio pubblico. Oltre a ripercorrerne le sfide e le peculiarità, la mostra guarda al Cubo come oggetto di riflessione, dedicato – per riprendere le parole di Alberto Garutti stesso – a “tutti quelli che passando di qui, anche per un solo istante, la guarderanno”.

A cura di Frida Carazzato, in collaborazione con Angelika Burtscher e Daniele Lupo (Lungomare)
Fino al 01.09.2024

Bulletin 2024

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